La Station 936 incontra Roberto Gotta!

Roberto Gotta, l’autore del mai dimenticato  “Le reti di Wembley”, attuale collaboratore di Fox Sports per cui ha realizzato anche uno speciale sul Boleyn Ground, ci accompagna in questa chiacchierata all’insegna del football.

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Innanzitutto grazie per averci dedicato un po’ d’attenzione, siamo sicuri che le tue parole saranno più che apprezzate.

Come nasce la passione per il calcio inglese?

Non ricordo neanche io benissimo, direi a tappe. Milan-Leeds United nella finale di Coppa delle Coppe del 1973 ma di inglese c’era poco, dato lo stadiaccio greco in cui giocavano e il fatto che da simpatizzante di Gianni Rivera non consideravo neppure il Leeds, né sapevo che fosse una delle grandi inglesi dell’epoca. Forse bisogna andare all’atmosfera di Inghilterra-Polonia, vista in un fumoso Mercoledì Sport della Rai, la partita delle parate di Jan Tomaszewski e dell’Inghilterra non qualificata. Il contorno però mi colpì, per lo stadio maestoso, il tifo dalle tonalità cupe per il buio nelle tribune e il riverbero dei canti sul soffitto, la folla monocromaticamente scura, la totale assenza di fumogeni o striscioni o tamburi e scemenze del genere. Credo anche Inghilterra-Italia di quello stesso autunno, la famosa vittoria dell’Italia con gol di Fabio Capello, che non mi diede alcuna gioia, anzi. Poi la finale di FA Cup del 1974, vista sulla Tv Svizzera italiana o in sintesi addirittura su Rai2, ma vado a tentoni. Di sicuro le finali di FA Cup sulla Svizzera furono decisive, assieme alla strepitose immagini di folla delle partite del Liverpool in Coppa Uefa nel 1976 e Coppa dei Campioni nel 1977. A creare tutto furono appunto gli scenari, i campi o tutti fangosi o tutti verdi di tonalità diversa da quella italiana, il pubblico immune dalle cialtronerie latine, una eleganza assoluta che contrastava e contrasta tuttora, ai miei occhi, con il disordine del calcio e della tifoseria calcistica a sud delle Alpi e dei Pirenei. I gusti sono gustI: lo “yes!” al gol mi emoziona più del “gol” latino. Non pretendo che sia così per tutti, è ovvio.

La tua prima partita in terra inglese?

Liverpool-Arsenal, Charity Shield del 1979. Pochi mesi prima avevo visto sulla indimenticabile tv della Svizzera italiana Manchester United-Arsenal, la finale di FA Cup che mi aveva appassionato in modo indelebile, ed essere a Wembley, rivedere una delle due squadre e oltretutto con la medesima maglia della finale fu qualcosa di così emozionante da rendermi impossibile, ora, un ricordo dettagliato. Anche se sognando quel viaggio mi ero preparato per settimane, all’epoca non c’erano le possibilità di “studio” di adesso per cui non saprei neanche rammentare il percorso esatto fatto da Southgate, dove abitavo presso la classica famiglia che ospita studenti stranieri per i corsi estivi. Ricordo che il padrone di casa, tifoso del… Tottenham costretto suo malgrado ad accompagnarmi, fece un percorso in auto poi prendemmo il treno o la metro. Tutto il resto è confuso, pare che il Liverpool (vinse 3-1) quel giorno abbia giocato in modo sublime, ma francamente non ricordo nulla. Troppe emozioni per me, all’epoca quindicenne.

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Wembley

Quante volte sei stato in England?

Una settantina? Di più? Di meno? Non so, ma sinceramente ho perso il conto. Negli ultimi anni ho dovuto ricorrere a toccate e fughe di una giornata, non ho più il tempo di restare e fare filotti di 5 partite in 5 giorni; anche come spesa non è più sostenibile e un po’ mi dispiace.

Parlaci un po’ dei ricordi più belli che il football inglese ti ha regalato in questi anni.

Sono troppi. Davvero troppi. Legati perlopiù alle origini, perché negli ultimi anni la mancanza di tempo mi ha intristito. Una volta, quando oltretutto ero più impegnato di adesso col lavoro, potevo restare in Inghilterra 3-4 giorni di fila e vedere tante cose, ora parto, vedo partite e torno la sera stessa tra mille pensieri di lavoro, di sopravvivenza e vita, e il gusto si è un po’ perso. Il ricordo più bello è dunque quello dei primi anni, e lo è praticamente di tutto quel che ho visto e vissuto. Una nostalgia così forte da non essere a volte sostenibile.

C’è qualche cosa del mondo inglese che cambieresti?

Beh, siamo nell’utopia, ma non vorrei calciatori o allenatori stranieri. Su un piano più pratico, via bandiere, tamburi e strumenti sonori dagli stadi inglesi. Nel momento in cui al Selhurst Park viene inquadrata la bandierina del calcio d’angolo tra Whitehorse Stand e Arthur Wait Stand, insomma a sinistra dalla parte della telecamera, e si vedono bandiere, si sentono tamburi e battiti delle mani ad accompagnare il ritmo, quello diventa uno scenario che può essere Olanda, Germania, Francia, Belgio. Non è più Inghilterra, o meglio calcio inglese, e allora che senso ha? Sul piano non sportivo, del mondo inglese cambierei tante cose, ma discorsi complessi e fuori tema.

Il giocatore preferito di sempre?

Non mi hanno mai “preso” i grandi campioni, se non forse Gianni Rivera per quella sua parlata alessandrina a me così familiare per via dei parenti e delle lunghe estati trascorse dai parenti in Monferrato. In Inghilterra mi vengono in mente Alan Sunderland dell’Arsenal per quel gol al 90° nella finale di FA Cup del 1979 contro il Manchester United e David Cross per quello che ha voluto dire per il West Ham nei primi anni Ottanta. Abbastanza grezzo, con il naso di chi sui cross (c minuscola…) si buttava senza preoccuparsi delle conseguenze, ebbe il merito involontario di indossare la maglia Adidas del 1981-82 che secondo me è tra le più belle di sempre, e di fare parte di una serata che non potrò mai dimenticare, quella del 2 settembre 1981. Ne ho parlato nel libro, fu la sera di Spurs-West Ham a cui avrei tanto desiderato assistere. Ma il periodo particolare, infestato dalla violenza, indusse gli Spurs a decretare che la gara fosse all-ticket, insomma non si poteva semplicemente dare un paio di sterline allo sportello ed entrare, come era normale, ma bisognava (pre)munirsi di biglietto, e quando il giorno prima mi presentai a White Hart Lane il ragazzo mi disse che erano finiti. La sera della partita non sapevo che sarebbe andato in onda un servizio di alcuni minuti nel notiziario di una rete, forse la ITV, per cui non mi misi neppure a cercare il risultato: è una mia caratteristica, accentuata con gli anni, il fatto che se non vedo una partita, dal vivo o in tv, non mi interessa molto neanche sapere come sia andata a finire. Quest’anno per esempio ho addirittura scoperto che si giocava juventus-Manchester City quando a mezzanotte, portando a spasso il cane, per distrarmi ho aperto sul cellulare la app di Livescore. Non solo non ero interessato al risultato, ma neppure sapevo che giocassero, quella sera. Tornando a Spurs-West Ham, il giorno dopo, mentre nuotavo nel profumo della colazione all’inglese preparata dalla padrona di casa a Morden, girai la copia del Daily Qualcosa che era appena arrivata, e vidi il risultato. Spurs 0 West Ham 4, quattro gol di Cross… 23 anni dopo scoprii che Cross era nello staff dell’Oldham Athletic, stampai una sua foto, la misi dentro una busta cartonata, gliela inviai allegando analoga busta con francobollo per la restituzione e gli chiesi una dedica e una firma, spiegando il perché. Mi tornò tutto pochi giorni dopo, ed era LUI (!) a ringraziare. Aggiungo Ian Wright, centravanti di Palace e Arsenal (anche West Ham ma a fine carriera): un senso del gol che pochi in Inghilterra hanno avuto, un entusiasmo debordante, una varietà di conclusioni in porta. Indimenticabili i due gol nella finale di FA Cup del 1990.

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David Cross

Torniamo al presente: qual è la tua opinione sui tanti giocatori stranieri che militano nella Premier?

Rapidamente: ho imparato ad amare il calcio inglese negli anni Settanta, quando lo straniero più esotico era delle Isole Shetland, e se si tornasse a quei tempi sarei solo contento, ma so che ovviamente non si tornerà, anzi andrà ancora peggio. Vedere calciatori stranieri paracadutati al QPR senza neppure sapere cosa sia, cosa rappresenti e cosa lo distingua dal Doncaster Rovers per me è atroce. Un calcio inglese con soli britannici e irlandesi non vincerebbe nelle coppe europee, ma chissenefrega.

… e di conseguenza anche dei nuovi padroni stranieri?

Vedi sopra… Non ho niente contro di loro, però. Preferirei non vederli ma non sopporto le campagne “contro” e le contestazioni, spesso nate da basi ideologiche e finto-pauperiste, per cui facciano quel che vogliono.

Pensi che il cosiddetto “modello British”, di cui in tanti parlano sia replicabile in Italia? Ad esempio la Coppa Italia potrà mai avvicinarsi alla fantastica Fa Cup?

Vuoi sapere la risposta alla seconda domanda? Spero di no. Non mi interessa quel che accade o potrà accadere al calcio italiano, e comunque quando la mentalità è diversa nessuna modifica strutturale può realmente cambiare le cose. Bisogna poi ricordare che la FA Cup è scaduta parecchio, e ne parlo più avanti. Il modello inglese, espressione usatissima dai media italiani e di conseguenza insopportabile, è fatto di tanti elementi e non tutti sono replicabili, anche a prescindere dalla mentalità, per cui sorvoliamo. Ci sono purtroppo malattie incurabili, e ci sono mentalità incurabili. Come la nostra.

C’è uno stadio che preferisci per l’atmosfera o architettura?

Mmm… Il Boleyn Ground per mille motivi, avendo anche avuto la fortuna di sedermici prima della ristrutturazione. Il Craven Cottage per struttura e posizione. Il Goodison Park, anche se davvero bruttino in alcune parti esterne. Brisbane Road del Leyton Orient quando era ancora senza condomini agli angoli, ma anche adesso il tetto della tribuna di fronte a quella principale è un bel pezzo di calcio. Bramall Lane dello Sheffield United, esempio principe di stadio che ha visto la Premier League ma che paragonato ad altri pare un rudere, in alcuni scorci esterni. Mi piaceva moltissimo Leeds Road, lo stadio dell’Huddersfield Town. Molto bello Villa Park, moderno ma ancora antico e nobile in tanti aspetti. Ma mica li ho visti tutti. Mi piacerebbe andare a Carlisle o a Plymouth, ad esempio, ma al momento è impossibile, perché bisognerebbe stare via almeno due giorni, e semplicemente non posso.

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Leeds Road

Ti emozioni quando entri in uno stadio inglese e…

… e sento i canti, vedo persone che si salutano stringendosi la mano ma restando individui, senza consorziarsi in gruppi, e alla fine della partita vanno ognuno per la propria squadra, ritrovandosi magari al pub ma senza impegno. Il mio pubblico ideale è composto da singoli individui legati dall’affetto per una squadra, che si ritrovano per la partita o la trasferta e nel resto del tempo si dedicano ad altri senza cercare di influenzare i club o auto-eleggersi a rappresentanti della tifoseria. Sul piano tecnico, palla all’ala che fa un uno-due con un centrocampista o una punta, va sul fondo, crossa e il centravanti la sbatte dentro travolgendo tutti o la tocca per un collega che accorre e sfonda la rete. Il terzo gol di David Cross in quello Spurs-West Ham del 1981 per me è quasi la perfezione. Lo trovate su Youtube.

La Premier piano piano sta cambiando, prezzi alti dei biglietti, stadi sempre più moderni… esiste il rischio che modernizzando troppo si perda la vera essenza del football inglese?

Rispondo su due piani:

  • la vera essenza si è già persa varie volte, ma non necessariamente per i fattori di cui sopra. Ad esempio, basta un allenatore straniero che tenga fuori 5 titolari da una partita di FA Cup perché gli interessa più il campionato, o che invochi la pausa invernale, che già la cosiddetta essenza di un tempo se ne va. Se poi si considera che spesso i dirigenti sono d’accordo, e che la pratica è ora diffusissima anche tra (i pochi) allenatori britannici, ecco un altro segnale negativo. La FA è quasi commovente nel suo tentativo di promuovere la FA Cup, anche con un’assurda esasperazione di cose banali come il sorteggio (ho visto lo slogan “Ogni partita è un’avventura”, imbarazzante), ma alla fine le presenze di spettatori alle partite di coppa sono quasi sempre deludenti, e questo secondo me è drammatico tanto quanto i prezzi alti, quando non sia ovviamente collegato. Anzi no, perché per la coppa spesso i prezzi sono bassi.
  • è affascinante come il calcio inglese di oggi sia diversissimo da quello degli anni Settanta ed abbia però conservato una tale capacità di attrarre. Di fatto, anzi, il calcio inglese è cambiato tre volte tra anni Settanta e anni Duemila eppure ha saputo mantenere alto il livello di fascino. Del resto, un tifoso di mezza età a fine anni Sessanta avrebbe detto “non è più il calcio di una volta”, vedendo le esultanze diventare più individualiste, i calciatori tenere la maglia fuori dai pantaloncini, i negozi delle squadre cominciare a vendere prodotti e souvenir con il marchio. È ciclico.

Qualcuno dice che il vero calcio inglese oramai si respiri solamente nelle leghe inferiori, tu che ne pensi?

È un’affermazione che inizialmente aveva qualche verità ma è diventata qualunquistica, come tante altre che circolano. Nelle mie trasferte mi sono trovato in mezzo a centinaia di tifosi di squadre di Premier League che se non fosse stato per le maglie che indossavano potevano essere come i tifosi degli anni Settanta o Ottanta, solo meno esuberanti (e questo è un eufemismo), senza differenze di spirito con quelli di un Ipswich Town o un Bristol City. Semmai possiamo distinguere tra le 4-5 squadre note in tutta Europa, e in Europa abituate a giocare, e le altre. Ma a parte i prezzi e la produzione televisiva non vedo differenze di mentalità e spirito tra un Blackburn Rovers e un Leicester City, anche perché fino a pochi anni fa erano in situazioni esattamente opposte a oggi, e potrebbero sempre tornarci. Quanto ai club minori, come ho scritto già nel mio libro spesso la loro scelta di proporsi come “family club” o cose simili è un modo elegante di mascherare la voglia, o l’impossibilità, di essere altro. Non ho visto molti presidenti di squadre di League One o Championship disperarsi dopo un successo nella finale playoff: i fatti dimostrano che i club al di sotto della Premier League non vedono l’ora di salire al vertice e abbandonare il loro status, e pazienza se perdono una presunta identità, troveranno un altro slogan accattivante.

In questi anni molti italiani si sono appassionati ai club inglesi, tantissimi partono al seguito della squadra, cosa ne pensi?

Beh, essendo stato tra i primissimi a farlo, per motivi di età, non posso che pensarne bene. Anche se con il passare del tempo in me ha prevalso la sensazione che tutti noi, inconsciamente, contribuiamo alla perdita dello spirito originario. È un paradosso, ma lo sento vivo: ci siamo appassionati ad un tipo di calcio e abbiamo avuto voglia di andarlo a conoscere ma più siamo e più quel calcio si allontana da quello che ci piaceva. Per quanto “bravi”, non contribuiamo all’atmosfera come un britannico o inglese vero. È vero che nel mio settore di tribuna al Boleyn Ground sono in tre, forse quattro su 1000 a urlare qualcosa e provare a cantare durante la partita, e dunque un italiano silenzioso equivale a un inglese silenzioso, ma a uno straniero mancherà sempre la capacità di capire l’ironia, gli accenti, lo spirito, di identificare da come viene pronunciato “come on West Ham” se il tifoso è dell’Essex o del Kent o del Surrey. Il paradosso è dunque che lo stadio inglese ideale è uno stadio in cui non ci sia nessuno di noi, me compreso ovviamente. Ma non sono così bravo da starmene a casa.

Parliamo  del tuoi libro “Le Reti di Wembley”, ti sei reso conto del successo? È un libro che ha fatto la storia tra noi tifosi del football inglese…

Sì, so che è piaciuto molto, anche se se in alcune parti è davvero un libro integralista. Sono le poche in cui mi sono davvero espresso liberamente, tra l’altro. Se lo facessi sempre, anche su altri argomenti, verrei messo al bando dalla società civile. Ho ad esempio smesso volontariamente di scrivere per ESPN Soccernet (ora si chiama ESPNFC) alcuni anni fa perché scrivevo di calcio italiano e un giorno mi sono accorto che avrei detto cose troppo pesanti, alcune delle quali non dimostrabili ma note a tutti, e poi emerse. Tornando a noi, la soddisfazione maggiore è stata nel vedere due volte, su un volo verso Londra, persone con il libro sottobraccio. Voleva dire che uno dei miei intenti, ovvero quello di farne una piccola guida di viaggio, era riuscito. A luglio uscirà invece “Addio West Ham”, un diario delle mie trasferte da abbonato al Boleyn Ground in questa stagione. Finora di Premier League ho perso solo la partita contro il Newcastle, causa riunione di lavoro inutile ma alla quale non mi sono sentito di non presenziare. È finita 20’ prima che decollasse il volo da Linate… In ogni trasferta ho visitato luoghi storici legati al Thames Ironworks e al West Ham, ho mangiato in pub o locali tipici, ho percorso strade poco note ma unite dal ricordo storico del club e insomma ho respirato ferro, nel senso di Irons. C’è stato chi mi ha detto “ma perché non lo hai fatto per il Liverpool o il Manchester United? Avresti avuto più mercato”. Chi ha una mentalità così spero che il mio libro NON lo legga.

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… un tuo pensiero finale?

Eh, il pensiero è anche quello iniziale, ovvero che sono in imbarazzo ad essere intervistato perché per i giornalisti il narcisismo è dietro l’angolo e non va sollecitato troppo. Molti giornalisti televisivi pensano di essere persone migliori solo perché la gente li riconosce per strada, e lascio a voi la conclusione. Io spero di non diventarlo mai. O al massimo di non accorgermene, ma smettendo prima…

Grazie Roberto, sono sicuro che in Station 936 molti apprezzeranno il tempo che ci hai dedicato. Grazie!

Avevo mandato le domande molto tempo fa, e Roberto mi aveva risposto che aveva da rispondere a un precedente impegno… E che poi avrebbe dedicato a noi le risposte appena possibile. Alla fine le domande erano simili e allora ecco la gradita intervista, anzi chiacchierata.

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West Ham – Crystal Palace: 2-2

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Lorenzo Pozzi e Alessandro Riva presenti oggi a UPTON PARK.

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West Ham (4-2-3-1): Adrian 5; Antonio 7, Reid 6, Ogbonna 5.5, Cresswell 6.5; Kouyate 6, Noble 7 (Obiang 80); Emenike 6 (Carroll 60, 6), Lanzini 7, Payet 8; Sakho 5.5 (Valencia 69, 6)

Subs not used: Randolph, Song, Tomkins, Moses

Booked: Reid, Noble

Sent off: Kouyate

Crystal Palace (4-2-3-1): Hennessey 5; Ward 6, Dann 5, Delaney 6.5, Souare 7.5; Jedinak 6, Ledley 6 (Campbell 70, 6); Zaha 5.5 (Gayle 46, 7), Puncheon 5.5, Sako 6.5; Bolasie 6

Subs not used: Mariappa, McCarthy, Lee, Mutch, Kelly.

Booked: Ward, Sako

Referee: Mark Clattenburg 5

MOM: Dimitri Payet

Att: 34, 857

DailyMail

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West Ham – Crystal Palace 02/04/2016

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Alvin Martin, dal Merseyside ai cuori di Upton Park !

Alvin Martin

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Per questa settimana vi propongo un difensore che vestì il Claret and Blue da metà degli anni ’70 a metà degli anni ’90, diventando il quinto più presente all-time con la nostra maglia. Vi parlo di un ragazzo proveniente dal Merseyside, in particolare da Walton (sobborgo di Liverpool a nord di Anfield), nato il 29 di luglio del 1958. Il suo nome è Alvin Edward Martin. Tifoso dei Toffees, con cui iniziò a tirare i primi calci al pallone giocando anche nelle squadre giovanili prima di partire nel 1974 rifiutando un contratto “part-time”. Fallito nell’estate sempre del ’74 il provino con il Queens Park Rangers, fu scelto dal West Ham esattamente il giorno dopo. Firmò il suo primo contratto (non professionistico, una sorta di contratto in prova) il 19 agosto 1974. Non molti si sarebbero aspettati che questo ragazzo di appena sedici anni, in cui l’Everton non aveva creduto e che il QPR aveva addirittura scartato, avrebbe giocato ad Upton Park per più di un ventennio. Ma se il soprannome storico del West Ham è “The Academy of Football” un motivo ci sarà. Dopo un paio di anni di giovanili, conditi dalla finale di FA Youth Cup del 1975, nel giorno del suo diciottesimo compleanno firmò il primo contatto da professionista. Prima di vederlo giocare per la prima volta in prima squadra, però, si dovette aspettare quasi due anni, precisamente il 18 marzo 1978 quando fece il suo debutto (subentrando a partita in corso) a Villa Park, in un sonoro 4-1 rifilatoci dai Villans. La sua prima da titolare fu invece una ventina di giorni dopo, ad Elland Road, quando contribuì alla vittoria per 2-1 sul Leeds grazie alla sua prima rete tra i PRO. La stagione si concluse con la retrocessione in Second Divison, ma si ebbe anche l’inizio di carriera di questo nuovo astro nascente per la difesa. La stagione successiva si rivelò abbastanza altalenante perlomeno all’inizio, con un maggiore impiego nella seconda parte del campionato. A fine anno, 23 presenze e una sola rete. Le due stagioni successive videro un netto incremento del suo impiego da parte dell’allora manager John Lyall: 55 presenze nel 1979-80 e 60 nel 1980-81, con 5 goal (3+2). Nella stagione 1979-80 giocò tutte le partite della campagna vincente di FA Cup eccetto il replay della semifinale con l’Everton.

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Il primo (e unico) importante trofeo entrò, grazie alla vittoria sull’Arsenal il 10 di maggio 1980, nella bacheca del ventiduenne Alvin. Al termine della stagione 1980-81, come noto, il West Ham vinse la Second Divison e finalmente poté ritornare a confrontarsi con l’élite del calcio inglese. In questo biennio entra anche nel giro della Nazionale dei Tre Leoni, sotto la guida dell’esperto Ron Greenwood. Dal 1980 al 1986 collezionò totalmente 18 caps. Nella stagione seguente, conclusa a metà classifica, realizzò il suo massimo numero di reti in un Campionato (4, di cui una doppietta al Coventry City), record che eguaglierà quattro stagioni dopo. Negli anni seguenti continuò ad essere un punto fisso nell’11 titolare, concludendo sempre le stagioni tra i più presenti e togliendosi, di quando in quando, anche la soddisfazione di entrare nel tabellino alla voce “marcatori”. Oltre che quattro volte alla voce “espulsi”, ma per un difensore è un buon risultato. Ricevette tre Hammer of the Year (1980, 1982 e 1983); a partire dal 1984, e per 7 anni, indossò anche la fascia con la scritta “CAPTAIN”, non una cosa da nulla. Fu tra i protagonisti anche nell’85-86, anno in cui il West Ham chiuse terzo (miglior risultato di sempre), segnando addirittura una tripletta in uno storico 8-1 al Newcastle. Non solo! I tre goal li segnò a tre portieri (anche se solo il primo era portiere “di mestiere”) differenti: Martin Thomas, Chris Hedworth e Peter Beardsley. A fine di questa stagione eccellente fu convocato sempre da Greenwood alla rassegna iridata di Messico 1986. Durante la Coppa del Mondo, vinta dall’Argentina di Diego Maradona, scese in campo solo negli ottavi di finale contro il Paraguay (vittoria per 3-0), ricevendo un giallo al 37’.

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Era in panchina il famoso 22 giugno 1986, quando Maradona segnò due tra i sue goal più famosi: la Mano de Dios e il Goal of the Century. Dopo la stagione 1985-1986 iniziò la fase calante della sua carriera: in campo scendeva sempre meno (il massimo furono le 30 presenze in Second Division 1989-90), con la Nazionale non giocò più e l’età avanzava. Piccole curiosità: riuscì a giocare anche in Premier League (nata nel 1992-93) nelle stagioni dal 1993 al 1996; ha giocato in First Division sia quando era il primo livello sia quando era il secondo livello; lui e Billy Bonds (compagni di squadra dagli inizi di carriera di Martin al ritiro di Bonds, quindi per ben 12 anni) sono i due unici calciatori nella storia del West Ham ad essere premiati con due “testimonial match”. Il 5 maggio 1996, i quasi 24mila presenti ad UP assistettero alla sua ultima partita con la nostra maglia, prima di un ultimo anno con l’Orient (17 presenze e 0 goal). In tutta la sua carriera, ha indossato (e onorato) in 592 partite ufficiali il claret and blue, segnando 34 reti e venendo inserito nel Dream Team All-time. Dal 1997 al 1999 fu allenatore al Southend United, squadra dell’Essex. I suoi due figli sono entrambi calciatori: David è portiere, dal 2010 in forza al MK Dons, mentre Joe è difensore, dal 2015 al Millwall dopo 6 anni al Gillingham.

Angelo Hammer Ceci

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Henry Redknapp: la mente al potere

Torniamo alla carica con l’appuntamento del giovedì, dove analizziamo le leggende che hanno caratterizzato la nostra squadra nel corso degli anni.

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Il conosciutissimo Herny Redknapp ha ottenuto la celebrità soprattutto per la carriera da manager, ma per noi tifosi Hammers è doveroso ricordarlo anche per la carriera da calciatore. Nato nel 1947, nel 1964, all’età di 17 anni era già nel giro della prima squadra, andando a creare un connubio perfetto tra il suo giovane talento e le ambizioni del club, già attivissimo tra le sezioni giovanili all’epoca.

A lui vennero consegnate le chiavi del centrocampo Clarer & Blue per 8 anni, ottendendo così 149 presenze e qualche gol qua e là. Il fiuto d’attaccante fu durante tutta la carriera fu una carenza, ma riuscì a farne a meno grazie ad una grande caparbietà, dei piedi molto educati ed una visione di gioco da vendere.

Non raggiunse mai la nazionale, a quei tempi occupata da grandissimi calciatori, nel 1972 decise di cambiare aria e di passare a sud, nel Bournemouth, squadra che al giorno d’oggi si sta dimostrando degna della Premier League, ma che ai tempi arrancava nelle serie inferiori. Dopo aver concluso la carriera tra Brentford e Seattle Sounders, decise di passare nel mondo del calcio manageriale, e passarono solo 2 anni prima che le Cherries offrirono ad Henry il posto da manager.

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West Ham’s Harry Redknapp and Frank Lampard

Una lunga trafila di successi lo portarono nel 1994 sulla panchina del Boleyn Ground, dove tra molto amore e qualche critica restò fino alla stagione che divise due millenni. Negli anni passati allenò Portsmouth, Southampton, ed i giurati rivali del Tottenham, ottendo sempre discreti risultati, prima di approdare nel QPR, dove fu artefice di promozioni e retrocessioni. Attualmente allena la nazionale della Giordania: una mansione difficile, che però potrebbe addirsi alle sue caratteristiche da manager.

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Per chi lo conosce bene, non c’è bisogno di ricordare che fu ed attualmente è un grande esperto della crescita dei giovani: infatti, nel periodo agli Irons, fu lui a far crescere giovani come Michael Carrik, Frank Lampard e Rio Ferdinand. Più di recente invece fece sbocciare il talento di Luka Modric, ai tempi del Tottenham.

In molti lo rispettano, pochi lo amano, qualcuno lo critica per la carriera divisa tra Hammers e Spurs. Da parte nostra è doveroso onorare un uomo come lui, un uomo che si chiama Henry Redknapp.

di Paride

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